Il Luogo
Racconto fantareale di Valeria Riccioni
«Di chi sei figlia tu?» «Di mamma e papà». Era buffa, un po' selvatica un po' tenera. Sicuramente libera, e in quel posto ci camminava bene perché in piazza, poi, a guardare il rosone colorato e luccicante della chiesa, ci tornava sempre.
Valeria aveva quattro anni. L’avevano lasciata uscire con la sorella e il cugino di due anni e mezzo più grandi. Mentre li seguiva venne attratta da un rivolo di persone che muovendosi come il fiume dall’acqua ghiacciata che sta sotto il paese, si spostava nella direzione opposta rispetto a loro. Il fiumiciattolo di paesani e vacanzieri andava verso il campo da calcio, dove in estate si giocava sempre un torneo a squadre. Era così assorta in quel muoversi allegro e morbido che ci si perse dentro e finì a far parte della discesa degli adulti sconosciuti. Perse di vista i suoi piccoli affidatari, ma non se preoccupò. Arrivò fino alla fine, al campo. Ad un tratto qualcuno si accorse che era lì da sola e le chiese chi erano i suoi genitori. Lei rispose, a modo suo. Valeria non ricordava l’episodio, ma nella sua mente lo aveva perfettamente registrato ed era diventato il suo primo ricordo di quel paese di montagna, un po’ villaggio. A raccontarle sempre questa storia era la nonna, Domenica, che poi in adolescenza iniziò a chiamare nonna Sunday, fino all’ultimo giorno. Nonna Sunday, sorridente e cocciuta, le raccontava spesso anche di quella volta che lei, Valeria, si accucciò proprio in mezzo alla piazza e lì, proprio lì, fece la pipì. Ogni volta che quella scena veniva ricordata, la nonna non riusciva a trattenere la schietta allegria e a Valeria piaceva vedere la nonna ridere, che chissà quanti patimenti aveva attraversato, ma la sua generosità li frullava e cacciava via. Sunday aveva gli occhi grigi, in quei momenti brillavano come cristalli. Anche suo papà si divertiva di gusto ad ogni narrazione, anche lui lo faceva con quella risata inconfondibile e aveva lo stesso scintillio vivace e puro, dall’azzurro al verde che passava anche per l’argento. Fano Adriano. Era quello il suo posto di libertà. Era il luogo, quello con un nome e un cognome, tra rocce e cielo e, anche se era in montagna, lei ci sentiva il mare dentro. Le sue estati erano lì, almeno per due mesi. Era quel posto in cui vigeva un’unica regola: tornare a casa per pranzo e per cena, allo scoccare delle 13 e delle 20. A segnalare l’ora, però, non erano comuni orologi da polso, ma il suono delle campane. In piazza c’era una grande chiesa in pietra, a volte sembrava grigia, a volte color giallo sabbia. Sopra l’enorme portone in legno, c’era un rosone e ancora più su un campanile con un orologio che segnava il tempo con delle grandi lancette rosse. Ad ogni quarto d’ora partivano i rintocchi. Suoni più pieni per le ore, tintinnii per i quarti. Un tocco profondo per l’ora di pranzo. Otto lenti “toon” per la cena. Anche in inverno i suoi la portavano a Fano Adriano. Di quella stagione bianca portava sempre con sé l’odore del camino di casa, delle stufe a cherosene, il calore del fuoco in piazza, il profumo della cioccolata calda al rientro dallo sci e il silenzio. Quell’assenza di suoni che sembrava interrompersi solo con lo scricchiolio dei passi sulla neve, ma che in realtà, credeva lei, segnalava la sacralità e unicità di quel vuoto. Crescendo, anno dopo anno, non mancò mai di passare qualche giorno nel suo luogo di libertà. I periodi da trascorrere lì erano diventati più brevi, ma servivano sempre a riaccendere quella scintilla con cui era nata, ma che poi le capitava di disperdere per poca attenzione. Pensava davvero che ogni essere umano nascesse libero, ma che potesse esserlo veramente solo sapendo da dove viene, perché nelle tempeste che dovrà attraversare, quello sarà sempre il porto sicuro dove fermarsi a prender fiato. Credeva che per rimanere autentici, si dovesse fare come con l’amore: bisogna prendersene cura, e proteggerlo. Per questo, ogni anno, non mancava mai il suo personale appuntamento con se stessa e, c’è da dirlo, con gli amici di sempre che immancabilmente, come lei, si facevano trovare e anche se a volte era passato un anno, sembrava trascorsa appena una settimana. Sì perché nei luoghi di libertà come quello il tempo è solo il rintocco di una campana, nulla di più. Un anno però, molto lontano dalla sua infanzia, il tempo si fece sentire, molto, ovunque. Era iniziato da poco il 2020, stava per arrivare la primavera. Valeria era a Roma. In quei mesi viveva come se fosse, ogni giorno, dentro una specie di frullatore cosmico in cui il tempo sembrava andare ad una velocità incredibile. Fu proprio in quel momento che, ad un tratto, tutto si fermò, facendo fare un grande balzo all’intero pianeta Terra. Accadde che un virus tondo, verde, con tante cannucce intorno, bloccò il Mondo. Nessuno poteva più uscire di casa se non per pochi metri aldilà del proprio portone. Le persone non potevano più incontrarsi e, se proprio dovevano farlo, lo dovevano fare mantenendo una distanza di sicurezza di almeno un metro e con una mascherina di quelle da medico a coprire naso e bocca, a nascondere i sorriso. Però gli occhi si vedevano, ah se si vedevano! E la gente allora non poté più nascondere le emozioni tra i denti. Grazie ad internet tutti potevano parlare e vedersi tramite uno schermo. Si poteva lavorare, ognuno dalla propria abitazione, ma assolutamente la domenica non si poteva andare a pranzo dai nonni. Per fare la spesa ci si doveva mettere in fila indiana, a distanza di sicurezza, in attesa del proprio turno. Era tutto possibile, ma non ci si poteva proprio toccare o stare vicini. Non c’erano più feste, riunioni nelle piazze, concerti. I cinema e i teatri chiusero. La Tv non faceva che ripetere “State a casa” e a seguire comunicava il numero di morti e contagiati del giorno. La gente cercò di evadere, ma la sicurezza e i controlli aumentarono. Anche la vita di Valeria si fermò, ma fu solo per un attimo, il necessario per farle sentire che lei conosceva già tutto quello. Sapeva esattamente cosa fare. Così iniziò riprendendosi il tempo, seguendo i battiti del cuore. Poi riacciuffò i suoi colori. Trovò il modo di arrivare nel punto più alto del suo palazzo per vedere il cielo. Iniziò a non ascoltare più la televisione per riavere i suoi rumori e scoprì che alle 12, ogni giorno, arrivava dentro la sua casa in città il tocco delle campane della chiesa vicina. Si ricordò di quando qualcuno le disse che il silenzio è ciò di cui sono fatti i suoni, e se ne riappropriò. Giorno dopo giorno, tutto sommato, più che una condanna le iniziò a sembrare un ritorno a casa, ma lo teneva per sé che solo chi ride anche col cuore lo può capire. A volte, camminando nei pochi spazi che si potevano condividere, incontrava la paura, a volte il dubbio, altre ancora la comprensione e, qualche volta, anche un sorriso. Non ci si poteva abbracciare più, ma ci si poteva guardare negli occhi, e ascoltare. Il suono era, appunto, silenzio. Era un’onda pulita, come quella che sentiva a Fano Adriano, ogni volta. Per le città e i suoi abitanti era tutto nuovo, tutto da scoprire. Il canto degli uccelli, il rumore del vento che sposta le tende, il profumo del sugo che sta cuocendo nella casa accanto, la mamma che chiama il bimbo dal balcone, il rumore del pallone che rimbalza nello slargo sotto casa e il vociare dei bambini. Lei, e chi in quel villaggio di montagna sotto il Gran Sasso ci era cresciuto o ci viveva, conosceva quel mondo e sapeva che ciò che quel virus col nome di un supermercato stava facendo era solo l’inizio di un nuovo viaggio e non aveva paura, perché sapeva che in quella piazza, a guardare l’arcobaleno del rosone, ci sarebbe tornata. E, con lei, tutti.